Con il Land Grabbing, ossia “accaparramento di terre”, le grandi società private, Joint Venture, Fondi d’investimento e gli Stati stessi, puntano ad acquisire enormi appezzamenti da utilizzare per la coltivazione intensiva e l’estrazione di biocarburanti.
Secondo alcuni studi della CIRAD, dal 2000, oltre 33 milioni di ettari di terre fertili sono stati oggetto di compravendita. Con la pandemia il fenomeno è cresciuto ed i terreni passati all’agro business sono arrivati a più di 93 milioni.
La Cina è al primo posto tra i paesi che investono di più, seguita da Canada, Stati Uniti e Regno Unito.
L’America Latina (si pensi alla Foresta Amazzonica) domina la classifica dedicata alla “superficie accaparrata”, seguita da Africa, Europa orientale ed Asia.
I cambiamenti climatici e l’instabilità alimentare sono causa e conseguenza dell’aumento del Land Grabbing.
I settori maggiormente interessati sono: l’energetico, l’agroalimentare e quello dei biocarburanti
La disuguaglianza fondiaria è interconnessa ad altre forme di disuguaglianze relative alla ricchezza, al potere politico, al genere e all’età. Alcuni investitori millantano risvolti positivi, come l’accesso a nuovi mercati, la creazione di posti di lavoro, il miglioramento delle infrastrutture e il trasferimento di tecnologie.
Nella maggioranza dei casi con la cessione delle terre si rendono disponibili sempre meno terreni utili a soddisfare i fabbisogni locali, innescando degli spostamenti forzati della popolazione, non senza ricadute quali la perdita di biodiversità.
Molte associazioni chiedono l’adozione di un trattamento vincolante su imprese e diritti umani.
Per una situazione win-win, occorre assicurare ai paesi venditori di sfruttare i capitali mobilitati dagli investimenti in terre agricole, avendo potere decisionale e capacità negoziale.
Giulia Baccini